Studio Farnese – Roma, dicembre – gennaio 1969
mostra a cura di Lara Vinca Masini e Filippo Menna
L’incontro come quello proposto da questa mostra di due esperienze artistiche così diverse, quell’estetica di Paola Levi Montalcini e quella progettuale-architettonica di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti non vuol porsi come esempio di operazioni interdisciplinare ma come verifica dell’esistenza reale di una affinità di espressione a livello intersoggettivo.
È un tipo di mostra, dunque, a carattere sperimentale, non solo nelle esperienze che presenta in se stessa, come prima fase di verifica della possibilità di creare un supporto, su basi scientifiche e metodologiche, ma un possibile sviluppo del concetto di interdisciplina.
Il punto d’incontro tra le ricerche attuali di Paolo Levi Montalcini e quelle di Paolo Portoghesi e Vittoria Gigliotti può essere colto, al di là di una scelta formale nel motivo di base del quale si enucleano: l’esigenza di verificare la validità di una loro metodologia di progettazione, il loro programma, nei processi formativi della natura.
Quello di Portoghesi e Gigliotti è un esempio di collaborazione straordinariamente producente, ricca di stimoli, di suggestioni, un incontro operativo che a pochi paralleli: lo si constata nel sorgere coerente dell’invenzione che sembra prodursi e nascere, ancora come in crescita spontanea, dal nucleo formativo, scientifico, matematico. Lo spazio che Paolo portoghesi e Vittorio Gigliotti propongono è un particolare tipo di spazio che, come un elemento vegetale, nasce dalla terra, dalla pianta elaborata scientificamente, si svolge da centri focali per intersezione, sovrapposizione, dilatazione di cerchi, lungo la cui circonferenza si alzano a diramazione multipla, setti di pareti lineari concepite come vettori a coinvolgere, a guidare, distribuire la luce che viene a definire l’elemento dominante di uno spazio fluido come sospeso in una dimensione magica. Gli artisti ci dimostrano che il contrasto tra naturale e artificiale, tra organico e meccanico tra ciò che nasce e cresce e ciò che fatto, trova il suo luogo di risoluzione.
Le costruzioni luminose della Levi Montalcini sono oggetti programmati e, come tali, si presentano sotto il segno dell’ambiguità. Sono costruiti, fatti, e nello stesso tempo si presentano come puri processi, che crescono spontaneamente su se stessi, in quanto racchiudono in sé la regola del loro libero e imprevisto divenire.
La progettazione architettonica di Portoghesi e Gigliotti pone un problema analogo: ritrovare nel vitale la radice la motivazione del procedimento costruttivi.
La combinazione degli elementi modulari di base ancorata solidamente a un momento intuitivo, all’invenzione di luoghi di esistenza intesi come nuclei generici dell’intera struttura e rappresentati come campi di forza. Il modulo di base fondato sul cerchio, come ad esempio in Casa Papanice, forma simbolica in cui essere e divenire coincidono e il flusso continuo assume la struttura ciclica del ritorno. La ripetizione degli schemi formali di base conferma l’esigenza di radicare il divenire storico della funzione a struttura invarianti, a schemi fondamentali del comportamento, una sorta di archetipi della vita quotidiana.
Il recupero delle origini non è una fuga dal presente, ma ne costituisce una critica radicale. Ci presenta un modello di esistenza che intenziona il nostro comportamento, gli dà un senso per il futuro. La progettazione di Portoghesi e Gigliotti non poteva non aprire un varco su Utopia. Dicaia, la città giusta, è la proposta utopica di Portoghesi, il luogo che non esiste dove la tecnica è chiamata a liberare l’uomo dalla sua condizione di necessità biologica ed a fornirgli gli strumenti indispensabili per vivere sul piano dell’immaginazione e della creatività. La tecnica prende a modello ancora una volta la natura, creando una città vegetale, che come voleva Young per la poesia, cresce spontaneamente, cresce non è fatta.


